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Messa in scena a tutti i costi...?

Andrea Tassinari. Attore e formatore della Policardia Teatro


In alcune scuole a volte è forte la spinta degli insegnanti a portare i ragazzi a dover dimostrare qualcosa, ad una performance finale.

Un progetto teatrale nelle scuole prevedeva quindi negli anni passati sempre la richiesta della preparazione di una messa in scena alla fine del percorso.

Il tutto condito con l’invito dei genitori come pubblico in caldi pomeriggi estivi come “l’ultimo giorno di scuola” o in mattinate nuvolose precedenti alle vacanze natalizie.

Le tematiche poi, i contenuti, potevano essere vari e degni di attenzione, ma la performance finale era sempre lì.

I primi anni che lavorai con la Policardia in una di queste scuole era forte l’impronta che in tutto ciò che i ragazzi facevano o che erano costretti a fare, come laboratori, progetti artistici o addirittura gite scolastiche, doveva essere quasi sempre presente una pubblica condivisione che aveva, per la maggior parte delle volte, la strana puzza di un inganno. Si era lavorato soltanto con l’obiettivo di una messa in scena finale?

Era tutta apparenza per far vedere ai genitori che i propri figli “stanno recitando su un vero palcoscenico in legno nero e che qualcuno sarà autorizzato a fare un filmino con lo smartphone, e si sa che come è ovvio bisognerà applaudire da una parte e inchinarsi ripetutamente dall’altra quando tutto sarà finito...”

Ma fra i tanti bambini incontrati ce ne sono alcuni più timidi di altri, alcuni che sono arrivati da poco in Italia ed hanno ancora difficoltà con la lingua, altri con disabilità... ed il costringerli a dover mettere a memoria una parte, lavorare su un personaggio ed inserirli in una regia è molto difficile, oltre a caricarli di ansie e paura del giudizio. Dopotutto solo alcuni sono veramente interessati al "recitare" (e con molto più tempo a disposizione, sono sempre i benvenuti a coltivare questa passione anche nei nostri corsi pomeridiani), mentre con gli altri è più utile continuare il lavoro pedagogico attraverso il teatro.

In quei primi anni, in una scuola, in cui ancora non avevamo pensato il progetto Valar e tutto il suo concentrato di “creatività pedagogica”, il lavoro era dedicato ai racconti raccolti in tutto il mondo da Jean-Claude Carrière, che ci aveva gentilmente concesso i diritti per il suo “Segreto del Mondo”.


Il lavoro con i ragazzi fu incredibilmente nutriente, per me e per loro allo stesso modo, e forse avrò modo di parlarne meglio in futuro. Ma la cosa interessante fu ciò che avvenne quando spiegammo di non voler pretendere uno spettacolo alla fine del percorso.

Gli insegnanti erano scettici: avevano sempre visto il teatro come un qualcosa che si deve fare per apparire, per fingersi qualcun altro.

Man mano che il laboratorio andava avanti capirono che i racconti selezionati di volta in volta si rispecchiavano, o provavano ad avvicinarsi, agli alunni coinvolti.

Era un lavoro che non presupponeva solo la pura messa in scena del racconto drammatizzato; si incontrava il racconto da diverse prospettive, filtrate da diverse esperienze...

Era un lavoro che provava a dare agli allievi ciò di cui potevano avere bisogno in quel momento. Per farli crescere umanamente, per riconoscersi.

La messa in scena finale era stata neutralizzata; osservavamo come infatti anche in noi, oltre che negli alunni, questa cosa di doversi per forza esibire in fondo all'anno creasse solo ansie di prestazione, paure, vergogne e sminuisse il tutto.

Ma il braccio di ferro che si creò con gli insegnanti fu trattato con diplomazia e, sebbene le ansie che sorgevano anche in loro nel dover dimostrare qualcosa a tutti i costi fossero state allentate, non fu facile sradicare da loro il concetto di teatro unicamente come prodotto finale da dare in pasto a chiunque per poi finire lì e nient’altro.

Proponemmo allora un incontro finale aperto, in cui anche i genitori si sarebbero potuti unire in cerchio insieme a noi, e mostrare parte del lavoro, con esperienze o giochi da condividere, e nei quali si andava anche “in scena”, ma in maniera più spontanea e meno artefatta.

Niente riflettori, niente amplificazione e spesso nemmeno con la canonica frontalità da parte del pubblico.

Gli insegnanti erano commossi e grati del lavoro, perché ciò riempiva di senso tutto il percorso intrapreso, perché non era la solita "recita di fine anno".

E furono degli incontri aperti bellissimi, in cui ogni genitore poteva apprezzare il proprio figlio nella sua semplicità, mentre egli raccontava una storia e diventava allo stesso tempo più personaggi insieme, potendosi guardare veramente negli occhi l’un l’altro.

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